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Foto – Liana Millu, cronache di una giornalista-scrittrice ad Auschwitz

Appena uscita dai lager nazisti, la vera libertà per Liana Millu non era giunta con il ritorno in Italia, ma con una matita da poter finalmente, di nuovo, stringere. Quello strumento per scrivere che tanto le era mancato, e che le ha consentito di scrivere una serie di straordinarie testimonianze – tra articoli e libri – che sono state illustrate martedì sera a Cogoleto, durante il primo evento dedicato alla Giornata della Memoria, per non dimenticare mai gli orrori dell’Olocausto.

A raccontare l’esperienza e il pensiero di Millu sono stati la professoressa Giosiana Carrara, docente di storia e filosofia, distaccata a ISREC Savona, e Jacopo Marchisio, attore della compagnia “I Cattivi Maestri” di Savona.

Liana Millu  – nata Millul – di famiglia ebrea, manifestò un precoce interesse per il giornalismo e iniziò giovanissima a collaborare con i quotidiani “Il Corriere del Tirreno” e “Il Telegrafo”. Il suo primo articolo a diciott’anni, però, fu accolto come uno scandalo dalla sua famiglia, ragion per cui Liana scelse di apportare una modifica al suo cognome, come piccolo gesto di ribellione. Dopo il diploma magistrale, nel 1937 iniziò a insegnare nelle scuole elementari, proseguendo l’attività giornalistica. Ma, a seguito delle leggi razziali fasciste, fu espulsa dall’insegnamento e, successivamente, allontanata dalle redazioni.

In seguito, grazie anche alla relazione intrecciata con Lorenzo Cardinale, si trasferì a Genova ed entrò nel gruppo clandestino “Otto”, che aveva il compito di mettere al sicuro coloro i quali rifiutavano la levaNel 1943, durante una missione a Venezia, fu tradita da un infiltrato ed arrestata; dopo essere passata per il campo di transito di Fossoli, fu deportata ad Auschwitz, poi trasferita a Ravensbrück e, di qui, al campo di MalkowVenne liberata nel 1945, dopo un anno di prigionia, e rientrò in Italia nel mese di agosto. Il diario in cui ha raccontato la sua esperienza, Tagebuch: il diario del ritorno dal lager è stato pubblicato postumo.

Tornata a casa, nel 1945 scrisse uno dei primi articoli di giornale che affrontavano il tema dei campi di sterminio, il primo in assoluto scritto da una donna: in “Auschwitz, lager della morte”, pubblicato sul “Corriere del Popolo” descrive senza autocommiserazione, ma con coraggio, lucidità e sarcasmo – incoraggiata dall’amica scrittrice Willy Dias – un’esperienza atroce che ancora molti non conoscevano. Dal tatuaggio, quel numero che è il primo segnale di bestialità, alla rasatura e alla vestizione, con le vessazioni riservate a chi osava nascondersi o coprirsi: «Il pudore è un crimine grave – racconta Millu – perché la persona ardisce di ritenersi ancora un essere umano». Le persone non erano più esseri umani, erano pezzi, “Stück”, e così dovevano comportarsi.

E che fine avevano fatto gli altri, quelli che, all’ingresso del campo, erano stati portati via su un camion? «Già a posto», così rispondevano ridendo i nazisti alludendo alle camere a gas e al fumo che usciva dai camini dei forni crematori, uno spettacolo talmente abituale che nessun anziano del campo ci faceva più caso. Non di rado le ceneri dei corpi venivano sparse sul campo, come concime chimico. A quel punto, il barbaro processo di riduzione a “oggetto” degli esseri umani era stato compiuto fino in fondo.

In seguito, Millu scrive dei libri sulla sua esperienza: al centro del romanzo I ponti di Schwerin c’è la vicenda di Elmina, del suo rientro a casa dalla prigionia, ma anche delle sue esperienze di vita prima e dopo la deportazione.

In realtà, sostiene Liana, anche nelle situazioni più disperate come quelle dei lager, è possibile trovare delle forme di “resistenza” sviluppate dalla mente delle persone, che non si arrendono e mantengono un sottile filo di speranza, fino a crearsi piccole emozioni segrete. Il libro Il fumo di Birkenau racconta – tra autobiografia e finzione – le storie di sei prigioniere che mettono in atto questa forma di resistenza alle angherie quotidiane. In un episodio, ad esempio, nonostante la disperazione, la giovane Lily crede di essere riuscita ad attirare l’attenzione di un kapò, che le riserva sguardi di simpatia. La ragazza porta avanti questa piccola gioia segreta, sperando di riuscire a trovare salvezza, ma basterà la parola dell’amante del kapò per aprirle le porte della camera a gas.

In un altro episodio, si racconta la storia di Maria – il nome non è causale – che riesce a tenere nascosta la sua gravidanza fino al momento del parto, vissuto da lei e dalle compagne come una sorta di “natività”, un miracolo in un luogo così orrendo in cui non c’è spazio per la vita. Ma la logica del lager è ineluttabile e – dopo una notte in cui il fiore della speranza sboccia con la nascita di una nuova vita – alle prime luci del mattino suona l’appello e le compagne sono costrette ad abbandonare Maria, che muore dissanguata con il suo bambino.

Negli ultimi anni della sua vita, reduce dall’esperienza del lager, Liana Millu nutre una sorta di sfiducia nei confronti del genere umano, ma non della sua amata terra, e ci consegna un’importante lezione: «Ciò che mi ha permesso di sopravvivere – ha detto durante un’intervista – è stato il puro caso. Sono sempre stata fortunata, dal primo fino all’ultimo giorno. Non ho fatto mai nulla per salvarmi e fu solo per il semplice caso che mi salvai. Rispetto al creato, ora, non posso dire che ami l’umanità, ma amo la terra su cui abbiamo la fortuna di vivere; amo l’albero che fiorisce, il sole che tramonta. Talvolta racconto la storia del filo d’erba che incontravo ogni mattina in Lager. Ogni mattina, quando percorrevamo la via centrale del campo per andare a lavorare, vedevo spuntare tra due pietre un filo d’erba. Tante mie compagne strappavano questi fili d’erba, ma io ne avevo uno speciale che ogni mattino guardavo e che mi diceva: vi è della vita tra le pietre. E questo mi ha sempre confortato. Io trovo che la cosa più grande che noi abbiamo è la bellezza di questa terra, su cui possiamo vivere: questo è per me di grande conforto, è ciò che ancor oggi mi rende accetta la vita».

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