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Treno e Cinema, percorsi paralleli – Shangai Express, il potere degli Studios

Lo stravagante e provocatorio Josef von Sternberg non aveva mai visto la vera Cina. Ciò non gli impedì tuttavia di cimentarsi in un film a sfondo storico, autentico melodramma esotico,  girato completamente negli Stati Uniti e interpretato dalla conturbante e misteriosa Marlene Dietrich. Shanghai Express fu il più grande successo commerciale dell’accoppiata Sternberg-Dietrich, che in soli cinque anni, tra il 1930 e il 1935, arrivarono a girare assieme ben sette film. Con in più, la forza di alcuni notevoli professionisti del tempo come  Lee Garmes, operatore (Oscar per la fotografia); Jules Furthman, sceneggiatore; Hans Dreier, scenografo; Travis Bantom, costumista. Se oggi la finzione cinematografica si può avvalere di tecnologie digitali che permettono di “costruire” persino gli attori, per gli anni che precedevano la seconda guerra mondiale Shangai Express fu già un risultato sorprendente, una sorta di celebrazione della più spinta finzione cinematografica, realizzata grazie al grande controllo dei mezzi cui solo il mitico potere degli studios poteva pervenire. Tutto finto per offrire un rimando credibile di assoluta realtà, proprio all’esatto contrario della teoria filmica che in quegli stessi anni si era affermata secondo lo stile classico di John Ford.

Nel film di Sternberg, il treno Pechino-Shanghai si trasforma in un palcoscenico sul quale viene rappresentata un’intensa storia d’amore, interpretata da due «tipi» molto romanzeschi: la bellissima donna perduta, Shanghai Lily, prostituta d’alto bordo, e l’apparentemente cinico ufficiale medico britannico Donald Harvey interpretato da Clive Brook. Attorno a loro altri personaggi-maschere, come l’elegante ufficiale francese, il pedante ipocondriaco, l’anziana signora col cagnolino o lo scommettitore incallito. Tutti accomunati da un passato da cui fuggire, da un viaggio catartico affrontato per trovare una purificazione resa più difficile per l’inflessibile incalzare della guerra civile nella Cina degli anni Dieci del Novecento.

Nel corso del viaggio i rivoluzionari sequestrano il treno e pretendono il rilascio di un loro uomo in cambio di Harvey, che in Lily aveva intanto riconosciuto la donna amata anni prima. A questo punto però Lily si sacrifica offrendosi al capo dei rivoltosi in cambio della liberazione dell’uomo che ancora ama. Dopo una sparatoria, il treno riparte finalmente con destinazione Shanghai, mentre Harvey comprende quanto Lily lo ami.

Il treno che trasporta il suo carico di variegata umanità, dotato di carrozza ristorante e persino di bagno turco, è lento, molto fumoso e particolarmente rumoroso. Il suo ritmo cadenzato, che richiama tanto il battito del cuore quanto l’incalzare della coscienza, è sempre presente nelle scene di viaggio e nelle dinamiche carrellate nella stazione brulicante di gente. La ferrovia si confonde totalmente nella frastornante vitalità di una cittadina in cui la locomotiva sbuffante sembra un pezzo fuori posto tra mucche, galline, bambini, e insegne varie appese alle ristrette quinte rappresentate dalle case. L’intenso effetto chiaro-scuro della fotografia di Garmes non premia solo la bellezza della Dietrich, ripresa in primi piani antologici, ma anche lo stesso mezzo ferroviario, valorizzato drammaticamente per mezzo di inquadrature angolate o tagliate.

La Cina di quegli anni è certamente tratteggiata nel film più con l’occhio fantasioso dello yankee che con quello del narratore alla ricerca di una sostenibile contestualizzazione storica. L’ammiccante veletta con cui la Dietrich adombra il suo sguardo, e anche i suoi abiti e le sue piume, emergono come sottolineatura di quel distacco, pura provocazione nei confronti di un’umanità da commiserare: «Essere cinesi – la battuta è dello Scommettitore – significa nascere, mangiare riso tutta la vita e morire». La storia, qui, è indubbiamente solo un fondale scenografico posto in lontananza, un mero pretesto per raccontare vicende di debolezza e virtù umana.

Shanghai Express (USa, 1932)

Regia: Josef von Sternberg

Soggetto: Harry Hervey

Sceneggiatura: Jules Furthman

Fotografia: Lee Garmes

Scenografia: Hans Dreier

Musica: W. Frank Harling

Interpreti: Marlene Dietrich, Clive Brook, Anna May Wong, Warner Oland, Eugene Palette, Lawrence Grant

Produzione: Paramount

B/N

Durata: 84’

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Roberto Scanarotti, giornalista e scrittore, ha pubblicato Treno e cinema. Percorsi paralleli (Le Mani editore, 1997), Aghi, Macachi e Marmotte – Dizionario semiserio per viaggiare in treno (ecedizioni, 2009), Destinazione immaginario – Andata e ritorno nell’universo simbolico della ferrovia (ilmiolibro.it, 2012) e Ultra vendeva noccioline (2013). Treno e cinema sono amici da sempre. Per l’esattezza dal 28 dicembre 1895, quando i fratelli Lumière – a loro insaputa – firmarono l’atto di nascita della settima arte portando in scena proprio un’inquietante locomotiva con alcune carrozze al traino. Da quel momento in poi, dopo letterati, poeti e pittori, anche i cineasti furono attratti dal fascino della ferrovia, e non ci volle molto tempo prima che il treno diventasse un celebrato protagonista degli schermi. Roberto Scanarotti svelerà miti e riti della ferrovia su celluloide, attraverso una serie di segnalazioni focalizzate su rail-movie e dintorni.  Buon viaggio sui binari dell’immaginazione, dunque, anche ai pendolari che viaggiano ogni giorno su quelli reali e sono quindi poco sensibili alle suggestioni poetiche del mondo dei treni. Ma tant’è: parafrasando Bogart, bisogna pur ricordarsi che “è la ferrovia bellezza, e tu non ci puoi fare niente!”.